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Journal

Pratica

19 Giugno 2019

La mia prima lezione di Iyengar Yoga

Chiara M. Travisi


Ricordo benissimo la mia prima e la mia seconda lezione di Yoga, che fatalmente fu anche la mia prima lezione di Iyengar yoga.
Amsterdam, Paesi Bassi, 2001. La sera, dopo essere rientrata dalla Vrij Universiteit Amsterdam, dove stavo completando il mio PhD in Economics, la mia coinquilina mi propose di andare a fare una lezione di prova di yoga, vicino alla sede della University of Amsterdam, che frequentava lei. Eravamo entrambe laureate in Scienze Ambientali ma io mi stavo specializzando nella valutazione economica dei rischi ambientali e lei in microbiologia applicata alla degradazione dei composti organici di sintesi.
Per puro spirito di gruppo acconsentii a partecipare. Ero assolutamente scettica e per nulla attratta dalla disciplina avendo un passato di pratica sportiva agonistica piuttosto seria. Pedalando come forsennate in biciletta per recuperare il ritardo ed arrivare in tempo, arrivammo in un piccolo centro e seguimmo la lezione. Fu un disastro: l’insegnante era molto confusa e, essendo straniera in Olanda, non parlava correttamente né l’inglese né l’olandese. La lezione non era ben congeniata, le indicazioni assolutamente sui generis e l’insegnante decisamente impreparata anche nell’esecuzione degli esercizi. Ricordo che riuscivo a stento a trattenermi dal ridere provando una sorta di disappunto all’idea di trovarmi lì in quel momento a perdere il mio tempo e anche imbarazzo per l’insegnante che si stava, a mio avviso, mettendo in ridicolo. Lo stereotipo dello yoga come una pratica con un marcato sapore newage, che avevo chissà come interiorizzato, si stava materializzando davanti ai miei occhi. Era proprio così, dunque: lo yoga era effettivamente un’attività per giovani o meno giovani, più o meno fumati, più o meno fricchettoni, più o meno attratti da una ricerca di “peace and love”. Bene, pensai: qui inizia e finisce la mia esperienza con il mondo dello yoga. Ma così non fu. Al termine della lezione scoprimmo che l’indomani ci sarebbe stata una seconda lezione di prova con un’altra insegnante. Non so perché ma ci andai e fu la mia prima lezione di Iyengar yoga. L’atmosfera era completamente diversa: l’insegnante era molto precisa, ordinata, attenta e abile nell’esecuzione e nelle dimostrazioni. Durante la lezione, cercai di seguire scrupolosamente le indicazioni dell’insegnante. Ero stata un’atleta: ero allenata, abituata al rigore, alla disciplina, allo sforzo fisico ma il mio corpo era sordo, chiuso, insensibile e non in grado di seguire le istruzioni che mi venivano date, seppure di base. Scoprii che delle intere zone del mio corpo non erano mai state da me abitate: le dita dei piedi, le dita delle mani, le anche, la mia colonna, le mie spalle, il mio sterno. Terminai la lezione stupita e un po’ contrariata. Subito mi chiesi: ma cosa ho fatto fino ad ora del mio corpo? Fu un piccolo satori, un momento di svolta per me. In quell’ora e mezza era senza dubbio successo qualcosa che non mi era mai successo in ore e ore di allenamenti estenuanti. Non riuscii subito a capire cosa fosse ma intuitivamente capii che era qualcosa di straordinario e decisi di iscrivermi. Nei giorni seguenti scoprii poi che la sede delle lezioni altro non era che un piccolo dojo dove si praticava Zazen, la pratica di meditazione del Buddhismo Giapponese, Zen (da za: ‘stare seduti’ e ‘zen’: meditare).
Incominciai a partecipare anche alle sedute di meditazione. Mi svegliavo all’alba, attraversavo la città in biciletta, arrivavo all’ultimo minuto, stavo seduta in hankafusa (ardha padmasana: il mezzo loto) per quarantacinque minuti, poi dieci minuti di meditazione camminata (kin hin), poi sorbivamo una zuppa e poi, via, in Università. Ricordo che le gambe si atrofizzavano completamente dopo quel lungo stare seduti. Ricordo l’estrema difficolta di stare con la schiena dritta. Ricordo che il Maestro colpiva con un randello di legno (kyosaku) il dorso degli allievi già esperti, alcuni dei quali erano stati ordinati monaci, affinché non si assopissero. Ricordo soprattutto che in quel lungo stare fermi con gli occhi semichiusi a fissare il muro bianco davanti a noi, era sconvolgente quanto la testa fosse piena di parole, discorsi, frammenti di discorsi e ragionamenti. Il contrasto tra l’immobilità del corpo e la tumultuosità della mente era impressionante: quella che poi avrei chiamato vorticosità della mente (vrtti) si mostrava in tutta la sua inarrestabilità. Ci veniva detto di guardare i pensieri formarsi e disperdersi come nuvole, ma era estremamente difficile riuscire a farlo. Ricordo che alcuni nuovi arrivati non riuscivano a stare fermi e si alzavano, più o meno sgomenti, o in preda a stati di ansia.
Durante le lezioni di yoga, non avevo questa percezione di navigare contro corrente, di arrestare l’acqua con un colino. La mente, attraverso questo strano lavoro che facevamo sul corpo, si acquietava e basta. Capii più avanti che ciò accadeva spontaneamente perché il corpo fungeva da supporto alla “meditazione”. L’insegnante imbrigliava la mia cognizione chiedendomi di fare attenzione al mio piede, alla mia mano, alla mia schiena ecc. e i discorsi e pezzi di discorsi, anticipazioni di situazioni future o ricordi di eventi ed esperienze passate andavano immediatamente sullo sfondo, stingendosi (vairagya). Il corpo creava un terreno fertile all’acquietamento della cognizione superiore (manas, i pensieri), attraverso la focalizzazione della cognizione sensibile (dei cinque organi di senso, indriya). Prima di dare un nome a questo processo, cosa che avvenne in seguito grazie ai miei maestri, comunque ne stavo già beneficiando. Comunque facevo già esperienza, intermittente e sporadica da principio, di una condizione non ordinaria della cognizione. L’avevo provata, concretamente, e avevo intuito che questo mi dava sollievo nel mio quotidiano. Avevo intuito che nella mia condizione mentale ordinaria gran parte delle mie energie nervose venivano sprecate in questa attività cognitiva sovra dimensionata, cresciuta in modo abnorme e fuori misura rispetto alle necessità. Che bisogno avevo di rimuginare sul perché e il per come la tal persona mi aveva risposto in un modo e la tal altra si era comportata diversamente da come mi sarei aspettata, oppure di occuparmi prima (preoccuparmi) di cose a venire o rimuginare dopo su eventi passati. Nessuno, in effetti. A questo proposito ricordo una lettura assai proficua che feci in quei giorni e che vi suggerisco: di Taisen Deshimaru “Il vero Zen”.

 

“L’approfondimento teorico dello Zen non esercita alcuna influenza su di noi, sulla nostra personalità. Leggere libri, apprendere nozioni non porta mutamento, non aiuta nella ricerca del satori. Quello che conta è la pratica, zazen. Ho detto pratica ma avrei dovuto dire duello mortale, come accade nelle arti marziali che si ispirano allo Zen. Zazen deve essere praticato con la stessa energia, con la stessa concentrazion , come se fosse in gioco la vita, altrimenti non porta a nulla, anche dopo anni. Se è praticato in modo giusto, se la postura è corretta, il satori può essere raggiunto in un lampo. […] il Maestro, che osserva da dietro i praticanti, riconosce dalla  loro postura la condizione spirituale in cui si trovano.”

 

Venne poi il momento di ritornare in Italia. Sarei andata a lavorare in Università e avrei dovuto scegliere quale delle due pratiche continuare a portare avanti. Se lo sport mi ha insegnato qualcosa è che qualunque attività, per poter essere fatta in modo proficuo, va fatta ad alta intensità, ovvero regolarmente e seriamente. Fare seriamente entrambe le cose non era per me pensabile né fattibile con il tempo libero che mi rimaneva. Decisi senza troppi tormenti che avrei continuato con la pratica dell’Iyengar Yoga. Le ragioni erano due. Anzitutto, avevo bisogno di ingaggiare il corpo, perché ne sentivo la necessità fisiologica. Stare ferma e condurre una vita sedentaria sarebbe stato per me impensabile. Secondo, avevo intuito che il corpo doveva essere per me la porta d’accesso a questo “silenzio dentro la testa”, un passaggio prioritario e propedeutico allo stesso tempo ad un lavoro successivo direttamente sul pensiero, manas.
Oggi, dopo quasi venti anni di pratica ad alta intensità, regolare e ininterrotta di Iyengar Yoga, posso stare seduta con la corretta postura e tenendo a bada la mia mente e intuitivamente posso ora afferrare il concetto di mushin, il non-mentale e di ku, la vacuità, il vuoto, perno della filosofia Buddhista.
Quando oggi insegno ai miei allievi, ragazzi, giovani e meno giovani, mi auguro che anch’essi possano beneficiare di questa esperienza concreta, seppur inizialmente limitata nel tempo. Mi auguro che, quando si sdraiano in Savasana al termine della lezione, possano percepire lo spazio di silenzio e quiete liberatosi nella loro “testa” o, quantomeno, intuire che lo strano lavoro sul corpo che hanno fatto ha creato un “terreno fertile” affinché ciò avvenga. Con il pranayama questa esperienza diventerà ancora più penetrante, se gli allievi avranno la pazienza e la perseveranza di continuare a praticare. Come si dice: “se son rose, fioriranno”. Conoscere la strada, la tecnica, per immergersi nel silenzio e nella pace del “non-linguaggio”, potrà quindi diventare una risorsa. Dapprima un luogo interno, rifugio solo temporaneo, dalla proliferazione abnorme e non necessaria dei pensieri (tipicamente egoici). Successivamente, una condizione da ricercare intenzionalmente, protrarre ed infine esportare fuori dal tappetino. 

 

“La pace e il distacco testimonieranno l’efficacia della  nostra ricerca. [….] Il maestro Dogen ha detto: “Tenete le mani aperte, e tutta la sabbia del deserto passerà tra le vostre dita. Chiudete le mani, stringerete soltanto qualche granello di sabbia”. Siate vigili, sempre disponibili, affilate la vostra concentrazione come una spada. Solo allora entrerete nella Via”.  (Taïsen Deshimaru)

 

Bibliografia

 

Taïsen Deshimaru (1993) “Il vero zen”, Eds SE.

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