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Journal

Iyengar

19 Giugno 2019

Che senso ha insegnare e praticare yoga oggi?

Simona Romano


La domanda provocatoria del prof. Squarcini in riferimento alla conferenza tenutasi il 13 giugno presso l’Iyengar Yoga Institute Milano su: “Che senso ha insegnare e praticare yoga oggi?”, invita a formulare una possibile risposta.
Nella consapevolezza che lo yoga che pratichiamo oggi abbia con lo yoga classico indiano (quello dei nāga, dei tapasvin, degli ūrdhvabāhu, ecc. …) un rapporto di “distanza e relazione” che potremmo, a titolo esemplificativo, paragonare a quello che intercorre tra la musica classica e la pop, non mi sembra da questo desumibile una svalutazione dell’espressione pop dello yoga attuale rispetto a quello classico.
In tutti gli ambiti esistono delle proposte naif o di bassa qualità, ma questo non ne determina il senso né ne decreta la fine.
La disciplina dello yoga manterrà la sua vitalità finchè sarà in grado di fornire delle risposte utili a chi la pratica.
In merito al suo senso, con grande probabilità sia gli insegnanti che gli allievi si sono imbattuti nella questione, non fosse altro che per motivare lo sforzo che l’insegnamento e la pratica dello yoga richiedono. Le risposte tuttavia non potranno che essere molteplici e personali, per alcuni verbalizzabili e concettualizzabili, per altri solo intuitive o inconsce.
Rispondere in modo esaustivo alla domanda sul senso dello yoga ne sottende un’altra di più grande portata: cosa è lo yoga. La questione si è presentata in tanti altri ambiti: cosa è l’arte, la musica, eccetera? Ricca la bibliografia con risposte, nessuna la certezza.
Nel recente testo di James Mallison e Mark Singleton, Roots of Yoga , emergono la vastità e l’eterogeneità con cui la tradizione indiana ha connotato lo yoga. L’Induismo è polisemico per sua natura in quanto non ha una centralità rappresentata, ad esempio, in ambito cristiano, dal Vaticano e dal papa, che pur non manca di eterogeneità. Ancora più diversificate sono le espressioni collaterali allo stesso come lo yoga.
Si deduce così l’importanza di avere dei maestri di riferimento (della cui scelta siamo in prima persona responsabili) per non disperdersi nel decodificare le molteplici visioni, oggetto della ricerca speculativa accademica, ma dedicarsi all’ortoprassi.
L’ortoprassi, in questo caso, è la pratica della nostra tradizione, ossia quella del metodo Iyengar, la quale, come tutti gli insegnamenti, non può prescindere da una comprensione e rielaborazione personale, e pertanto da una certa eterogeneità.
Personalmente ritengo che il lavoro sul corpo che caratterizza l’Iyengar yoga abbia senso nel suo favorire la salutogenesi, nel significato più ampio del termine (la salute è definita dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia).
A differenza tuttavia di altre pratiche corporee, l’apporto salutogenetico dell’Iyengar yoga, con il suo continuo invito all’ascolto del corpo nelle sue più sottili espressioni, si rivela a diversi livelli, non ultimo quello del sistema nervoso.
Per quanto mi riguarda ho sperimentato come lo stesso abbia creato un “terreno fertile”, ossia le condizioni idonee, per far fiorire un’attitudine mentale idonea alla meditazione, beneficiando degli ormai noti effetti che questa pratica esercita sulla nostra mente.
Anche sulla pratica della meditazione (termine vago quanto il corrispettivo anglofono mindfulness) si apre un vasto mondo.
Nel libro “L’Albero dello yoga”, Iyengar ha descritto il suo approccio alla meditazione:

“Se io vi domandassi di fare meditazione, a occhi chiusi o in silenzio, e se anch’io chiudessi gli occhi, come potrei sapere cosa sta avvenendo nelle vostre menti? Voi forse potreste dire che questo mio atteggiamento è spirituale, ma io vi dico che non lo è perché la vostra mente può vagare altrove e questo non è il mio metodo di insegnamento. Io insegno esternamente ma così facendo mantengo i vostri organi interni in una condizione di consapevolezza concentrata in un solo punto per quattro ore di seguito. Per questo non ho bisogno di un diploma per dire se il mio è uno yoga fisico o spirituale. Quando insegno so che per quattro ore alla vostra mente non è stato permesso di distrarsi, e voi siete soddisfatti, interamente consapevoli del vostro corpo, della vostra mente, dei sensi e dell’intelligenza”.

 

Ha tuttavia specificato la comunanza del fine dei vari percorsi:

“In molte pratiche religiose si incontra la meditazione e si conoscono diversi modi di lavorare sulle emozioni e sui desideri. Potete sentir parlare di meditazione zen e pensare che sia in qualche modo diversa dalla meditazione yoga. Ricordatevi che il Buddha era nato in India ed era anche lui un praticante yoga. […] Non c’è assolutamente differenza. L’essenza della meditazione degli yogī – non dico degli indiani ma degli yogī – e della stessa meditazione dei maestri zen è la stessa cosa”.

 

Come lo yoga e la meditazione si inseriscano in un progetto di vita più ampio, appare questione del tutto personale che esorbita da questo contesto.
Affinchè sia possibile praticare e insegnare yoga nell’ottica suddetta, è indispensabile una formazione continua in diversi ambiti: studi indologici, anatomia e fisiologia del movimento, psicologia, i quali devono confluire in quell’arte della pratica che non si esprime solo sul tappetino ma più concretamente nella vita.
Ho meno desideri? Meno attaccamento? Meno avversione? Sono meno reattivo? Sono più equanime?
Queste sono alcune delle domande le cui risposte forniscono il senso alla pratica e all’insegnamento dello yoga.

 

Bibliografia

 

B.K.S. Iyengar (1989). “L’albero dello Yoga”. Eds Astrolabio-Ubaldini.

 

J. Mallison and M. Singleton (2017). “The roots of yoga”. Eds. Penguin.

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